Durante l’ultima diretta andata in onda sulla pagina Facebook de Il 6% che va in moto tutto l’anno, sabato 28 marzo, è stato intervistato anche Bruno Birbes. Lo storico pilota dakariano ha stupito e commosso tutte le persone connesse, concedendo a Monica Cromilla e Evan un’intervista realmente speciale. Che ho deciso di riportarvi qui (nella rubrica dedicata a chi si vuole raccontare) per dare l’occasione di conoscere la storia, lo spessore e la tempra di questo grande uomo. Che non si è mai tirato indietro, e che continua a prestare il proprio, importantissimo, contributo al mondo delle due ruote. Grazie Bruno Birbes, per l’esempio che ci dai ogni giorno!

Gli esordi della carriera di Bruno Birbes
Noi oggi, insieme a te, vorremmo parlare della mitica Parigi-Dakar, per provare a sognarla insieme. Però so che quella per la moto è una passione iniziata molto tempo prima, da ragazzino…
Sì, è vero: ho iniziato ad appassionarmi di due ruote a 14 anni, quando ho raggiunto l’età minima per guidare il motorino. E sono stato attratto fin da subito dal fuoristrada, anche se, in realtà, quelle che facevo all’epoca avremmo potuto definirle solo scorribande in mezzo alle colline.
Però eri già piuttosto forte, tant’è che poi, a 16 anni e con il 125, hai cominciato subito a “far vedere chi eri”.
Ho capito presto che la passione è strettamente legata alle proprie capacità, ma anche alla voglia di andare, di fare… e così mi sono messo a fare delle garette provinciali, regionali e così via. Difendendomi piuttosto bene, ma prima di tutto divertendomi.
Sei modesto, perché in realtà, a quanto ho letto, con un Müller 125 hai iniziato ad ottenere risultati piuttosto interessanti, a queste gare.
Ho iniziato a partecipare a delle gare importanti quando ho cominciato a correre con il Müller 50 alla Sei Giorni. E quella del 1968, a San Pellegrino Terme, è stata per me una tappa molto importante.

In questo momento, sul monitor vedo una moto che è diventata famosissima, che sono certa sia riconoscibile da chiunque. Vedo una moto rossa, che in origine era una moto completamente diversa. Parliamo di una BMW R100RS. Che cosa ci racconti al riguardo?
Quella è la moto che ho deciso di iniziare a preparare quando in me è nato il sogno di partecipare alla Parigi-Dakar, e l’ho fatto insieme a mio suocero, prendendo una moto di serie e trasformandola, copiandola da quelle speciali. Una volta pronta ho disputato un Rally dei Faraoni, per capire se in una situazione simile per la sarei potuta cavare. È andato bene, e così mi son iscritto alla mia prima Parigi-Dakar. Era il 1987.
Per gli appassionati delle cose tecniche, vorresti raccontare che cosa avete cambiato, su questa moto?
Della BMW R100RS erano rimaste l’immagine del motore e la sagoma del talaio. Tutto il resto è stato radicalmente cambiato: il telaio era stato rinforzato, così come erano state sostituite le forcelle, gli ammortizzatori, il forcellone posteriore era stato allungato, e il motore modificato per renderlo più adatto a questa tipologia di gare africane.
Se non ricordo male, avevo letto che i serbatoi erano addirittura 3.
Sì, ma già il serbatoio principale di 52 litri era già diviso a metà in modo che, in caso di caduta, almeno metà della benzina non andasse persa. Avevo poi 4 litri sotto la sella e 7 litri sul portapacchi posteriore. In totale potevo contare su 62 litri, che mi garantivano circa 500 chilometri di autonomia. Anche se la moto pesava 236 chili a secco, e a questo peso andavano aggiunti i 62 litri di benzina… Ma d’altronde quell’autonomia serviva, perché se ti perdevi dovevi pur aver modo di arrivare al rifornimento.

A proposito di questo: come la ricordi la leggendaria tappa da 1.150 chilometri?
Quella ce l’ho ancora nelle ossa! Ricordo di essere partito la mattina alle 6, e di essere arrivato il giorno dopo alle 6 di mattina al campo base. Dopo 24 ore di gara ero sconvolto, e mi sono messo in tenda per riposare un attimo. Ma la pace non è durata molto, visto che il mio meccanico è venuto subito a cercarmi per dirmi che il telaio era rotto e che dopo mezz’ora sarei dovuto ripartire. È stato tutto molto impegnativo, perché oltre ai 1.150 chilometri era necessario percorrerne altri 600 per arrivare a fine tappa, e concedersi il riposo il giorno dopo. Ma in quei casi è l’adrenalina a portarti avanti, e fino al tuo obiettivo.

Come navigavate nel deserto? Con la bussola?
L’organizzazione ti forniva il Roadbook, lo strumento sul quale si trovano tutte le indicazioni necessarie all’orientamento. Si tratta di segni, che indicano se al tot chilometro devi andare a destra o a sinistra, o seguire un certo grado di angolazione… Insomma, non c’erano le strumenterie che esistono al giorno d’oggi, e questo roadbook andava ruotato in base ai chilometri che stavi facendo. Infine avevamo anche due contachilometri: uno collegato a una ruota e uno digitale, sempre collegato a una ruota, ma che serviva di riserva nel caso si rompesse il primo. Nonostante tutto, però, perdersi era comunque un attimo…
E questa è stata la prima Dakar?
No, quella che ho finito è stata la seconda Dakar, perché alla prima mi sono ritirato dopo 3 giorni di deserto.
Ed è stata quella dove hai fatto l’incidente, la prima?
Sì, alla prima ho partecipato assolutamente senza assistenza, eravamo solo ero io e la moto. Per la seconda, invece, sono partito più preparato: avevo un camion e altri 3 amici avevano deciso di tentare questa impresa con me. Anche se, al traguardo a Dakar, sono arrivato solo io, il camion e due meccanici, perché gli altri avevano deciso di ritirarsi. Nonostante i mille guai sul percorso, comunque, avevo le spalle ben coperte, anche se questi sono stati piuttosto importanti. Ho dovuto cambiare il motore a Bamako, e poi è stata la volta del cambio…

Ricordo che si era rotto il cambio, infatti.
A terza tappa, purtroppo, anche se sono riuscito a uscire dalla prova speciale solo grazie all’aiuto del mio amico Aldo Winkler, che mi ha trainato per 150 chilometri fino all’arrivo.
E tu hai fatto la finta al traguardo?
Sì, perché bisognava passare la linea del controllo di arrivo a motore acceso. Così io mi sono sganciato da lui 1 chilometro prima, e ho spinto la moto a piedi fino all’arrivo. Con lo stupore del commissario di gara, che mi ha subito chiesto cosa fosse successo. Io gli ho detto che era finita la benzina, e devo averlo convinto: la moto si accendeva, seppur borbottando, ma il motore funzionava e questo mi ha permesso di ripartire il giorno dopo.
Dalle persone che ti conoscono ho scoperto che sei anche molto generoso, e più di una volta ho letto di occasioni nelle quali sei stato di aiuto per sistemare le moto di altri concorrenti…
Fa parte del mio essere: quando una persona si trova in difficoltà se posso dargli una mano gliela do volentieri, in tutti i sensi. Perché sono consapevole del fatto di essere stato aiutato tantissimo io per primo, sia in moto che nella vita. Se posso lo faccio col cuore.
Un motociclista con un pistone a posto del cuore, insomma.
Potrebbe anche essere, anche se credo che la cosa più giusta sia che, noi amanti delle due ruote, nelle vene abbiamo olio, non sangue.
Ti farebbe piacere parlare un attimo del tuo progetto Eagle Cross?
Dopo aver smesso di lavorare, ho pensato che mi sarebbe piaciuto fare qualcosa di nuovo. Così ho deciso di realizzare una Guzzi da fuoristrada, che nessuno aveva mai fatto. Il nome è nato grazie alla creatività di qualche amico, e dopo qualche ragionamento abbiamo pensato che Aquila da Cross fosse un nome piuttosto azzeccato. Per il primo mezzo sono partito con una moto che avevo a casa, incidentata, con l’obiettivo di realizzare una vera e propria moto da cross. In realtà, poi, ho finito per mettergli i fanali, le frecce, gli specchietti e quant’altro, ma il risultato è piaciuto subito a moltissimi. È comparsa su quasi tutte le riviste del settore, e dopo la prima, nel 2013, ne sono seguite altre. L’ultima è stata una V7 Special, riuscita particolarmente bene. Piccola, maneggevole (per modo di dire, visto che si tratta sempre di una moto da 180 chili, non da 150), mi ha dato tante soddisfazioni perché con questa ho partecipato alla Transitalia Marathon, all’Hardalpitour e a tutte quelle manifestazioni non competitive che ti danno la possibilità di giocare in fuoristrada e divertirti con gli amici.

Una domanda da motociclista, di meccanica, te la devo fare, e scusa se è sciocca. Una vita in BMW, Parigi-Dakar con BMW, come mai hai scelto di realizzare un fuoristrada con una Guzzi? Che cosa ti è scattato?
Semplice: sono un italiano. Faccio parte di quel gruppo che è ancora convinto che il nostro Paese sia il numero 1 al mondo, ed è per questo che mi sono messo a realizzare queste moto. Nessuno le faceva, nessuno ci credeva, dimenticando che l’Italia ha tante cose che tutto il mondo ci invidia: la meccanica, l’ingegneria, la creatività. E io sono fiero dei lavori che faccio, dell’impegno che ci metto, così come dell’inventiva spesa per dare vita a dei risultati.
A Mandello del Lario ti hanno mai ascoltato?
Lascia perdere. Mandello del Lario è una ditta fatta di tante persone, ed ora che la Guzzi è passata al gruppo Piaggio la situazione è molto diversa rispetto a una volta.
Le esigenze del mercato sono cambiate, insomma, ma questo non ci impedisce di continuare a sognare.
Assolutamente no, infatti l’altro mio sogno nel cassetto è di partecipare alla Sei Giorni giorni con il Müller 50 con il quale 52 anni fa ho disputato la stessa gara. Ed è davvero una grande fantasia, ma d’altronde lo dico sempre che quando si diventa vintage si ritorna bambini… O forse in realtà io lo sono sempre stato e adesso mi va di giocare, ma con i giochi del tempo passato. D’altronde si dice – e non è una frase che ho inventato io – che l’uomo invecchi solo quando smette di giocare. Se continua a giocare, invece, si diverte e passa il suo tempo diversamente. Resta vivo, dentro.

È difficilissimo commentarti, ora, perché ci stai davvero facendo sognare, e riflettere. Però devo proseguire con le domande, e la prima che mi viene in mente è relativa alla nuova V7. Il modello stradale che è uscito, secondo te, com’è?
Io ho avuto l’occasione di provarlo e di farci un po’ di chilometri, grazie al concessionario di Brescia. Io, ovviamente, ho subito cercato il difficile, però mi sono reso conto che non è il suo uso. Si tratta di una moto bella da guidare, maneggevole, con un baricentro abbastanza basso. Si presta ai viaggi, insomma, e di da una grande sensazione di confidenza, come se l’avessi da sempre. Al netto di tutto posso dire che la Guzzi ha fatto un bel lavoro su quel modello. Ed era anche ora che uscissero con una moto versatile un po’ più leggera della Stelvio, perché tutte le case si stanno muovendo in quella direzione.
Torniamo alla Dakar, ora, e più precisamene agli anni ’87-’88. Perché la storia racconta che sono stati solo 8 italiani che sono riusciti a finire la competizione, e uno di questi sei tu. Che tra l’altro hai gareggiato come pilota privato, organizzandoti completamente da solo. Con te vorrei tornare indietro a quegli anni, all’enorme sforzo fatto, alla determinazione dimostrata, all’organizzazione che sei stato in grado di metterei piedi per realizzare questo sogno. Sappiamo che il primo anno hai avuto un grosso intoppo, ma che non ti sei lasciato frenare…
Alla prima edizione avevo avuto modo di poter partecipare perché ero riuscito a raggranellare qualche sponsor, e a pagare l’iscrizione. In tempi in cui mettere una cassa di ricambi (80x30x50 centimetri) sul camion costava 15 milioni di lire. Il problema, però, è che il camion arrivava alle 2/3 di notte, mentre io arrivavo alla fine della tappa per le 20/21 di sera. E questo significava stare in piedi tutta notte ad aspettare che questo giungesse a destinazione per utilizzare i miei ricambi, e sistemare un po’ la moto. Dopo 3 giorni così, di deserto, dormire quasi mai e guidare tutto il giorno… sono saltato in aria e sono caduto, rompendomi 3 vertebre e lussandomi la spalla. Mi sono rialzato, ho rimesso in funzione la mia motocicletta e sono arrivato a fine tappa. Percorrendo i 200 chilometri mancanti con il favore dell’adrenalina in circolo. Una volta giunto alla fine, dopo aver messo la moto sul cavalletto e aver incontrato gli amici, sono entrato nella tenda per dormire. Solo che la mattina dopo, quando mi sono svegliato, erano già partiti tutti, e io ero veramente a pezzi. Non ero in grado di guidare la moto, assolutamente, e ho dovuto arrendermi all’evidenza. Ed è qui che è entrato in scena il Team Manager ufficiale di Honda, Carlo Florenzano. Che si è offerto di prendere la mia moto, lasciandomi il suo posto in aereo fino ad Agadez, per portarla alla fine della tappa. Alla seconda Dakar, invece, come vi dicevo sono arrivato più preparato, anche se alla fine mi sono trovato da solo. È proprio vero quello che dicono: la Dakar del 1988 è stata una delle Dakar più dure mai fatte. Si è trattato di 12.870 chilometri di cui 8.500 di prove speciali, e si può immaginare cosa questo voglia dire.
È in quell’occasione che hai detto «giuro non la faccio più, è una faticaccia incredibile»?
Sì, nelle interviste so di averne dette di tutti i colori, ed effettivamente è davvero stata una roba da pazzi. Però è bastato il tempo di arrivare a casa, lavarmi la faccia con l’acqua fredda… e già stavo pensando all’edizione successiva.
In realtà noi parliamo della Parigi-Dakar perché, nell’immaginario di tutti, rappresenta il grande sogno, ma tu hai fatto un sacco di altre gare, Rally dei Faraoni in primis.
Sì ho iniziato con il Rally dei Faraoni perché rappresentava un’ottima prova per la Dakar, utile a capire se sarei stato in grado di affrontare la gara e per vedere se i mezzi si sarebbero rivelati all’altezza. I primi due Rally li ho fatti con la Guzzi 500, solo al terzo e al quarto sono passato a BMW. Arrivando sesto assoluto, nell’87. Alla Dakar dell’88, invece, sono arrivato ventesimo assoluto. In un’edizione che contava 180 moto alla partenza, e solo 35 all’arrivo. Ero ventesimo, ma per me è stato come essere arrivato primo, non c’era nessuna differenza. Il vero traguardo è stato raggiungere il Lago Rosa, e ritrovarmi a piangere come un bambino.
Adesso la segui ancora la Dakar?
La seguo perché ho sempre degli amici che corrono e mi chiedono consulenze, consigli e informazioni. Attualmente ho l’idea di preparare una moto per la Dakar 2021, una Beta. Questo ragazzo è veramente in gamba, e ha già partecipato – aggiudicandosi la medaglia di bronzo – all’Hispania Rally raggiungendo la Spagna, e poi tornando a Brescia, in sella a un’Africa Twin. Non è da tutti.
Com’è la Dakar, 30 anni dopo? Che effetto ti fa il fatto che non si disputi più in Africa, ma nei Paesi arabi?
Le Dakar ai miei tempi, visto che non esistevano strumenti moderni di navigazione, richiedevano grande inventiva. Perché in caso di problema dovevi trovare un modo per risolverlo, e ogni giorno riservava la sicurezza che, per arrivare alla fine, sicuramente avresti dovuto inventarti qualcosa. Oggigiorno le Dakar sono un po’ diverse, e sono diventate competizioni nelle quali i piloti finiscono per darsi distacchi minimi. Sono proprio gare, mentre una volta lo spirito era decisamente più avventuriero, e fra un pilota e l’altro potevano passare delle ore. Detto questo, la Dakar resta comunque una gara estrema, durissima, alla quale partecipa gente preparata non solo fisicamente, ma soprattutto psicologicamente. Perché le prove speciali sono toste, e mantenere sempre altissimo il livello di concentrazione non è semplice. I piloti che corrono oggi sono bravissimi, più che all’altezza e capaci. È gente realmente preparata, che sa di correre dei rischi e si mette in gioco al 100%.
Bruno vuoi lasciarci con un messaggio dedicato ai motociclisti più giovani, a coloro che iniziano a viaggiare o a coloro che scoprono ora la moto?
Vorrei ricordare a tutti che la moto va usata con la testa, e attenendosi alle norme del Codice della Strada. Ai miei tempi forse eravamo più pazzoidi, più incoscienti: oggi no, su strada si rischia di farsi veramente del male. Il traffico è aumentato ed è importante essere responsabili, soprattutto perché le moto di oggi sono molto potenti. Rispettiamo la moto e rispettiamo la strada, e non ci saranno rischi.
Grazie ancora!
Un’ultima cosa, che mi piace dire sempre ai motociclisti: marcia lunga e testa bassa! E vi raccomando, andate piano ma fate presto!

Vuoi ascoltare l’intervista di Bruno nel video della diretta del 6%? Eccola qui!