La domanda se non mi senta mai sola in viaggio è una grande costante della mia vita. Arriva sulle labbra di tutti, ad un certo punto della conversazione, ma nel tempo ho imparato a gestirla con lo stesso sorriso placido con il quale rispondo al resto. Ma non è stato facile, visto che inizialmente mi infastidiva: la trovavo incomprensibile, perché io sono abituata a vivere così. E, visto che per me non esiste differenza fra la vita e il viaggio, perché dovrei sentirmi sola in viaggio, e non nella vita che conduco tutti i giorni?

Mi infastidiva anche perché non potevo non leggerci una leggera sfumatura giudicante, un dito puntato che aveva per metà il sapore della pietà, e per metà quello della critica. Donna da sola in viaggio, com’è possibile che tu sia in grado di cavartela senza l’aiuto di nessuno?

Poi sono cresciuta, ho continuato a diffondere il mio messaggio preferito e mi sono fortificata. Smettendo di farmi toccare da questa domanda, per i motivi sbagliati, e iniziando a vederci solo della curiosità. Ci è voluto del tempo (e non è che sia un processo concluso, ci lavoro ogni giorno) ma in qualche modo sono riuscita a lasciar andare quello che per me ha significato viaggiare in due e a rispondere serenamente.

Perché la verità è che a me piace viaggiare da sola: è la cosa che mi si addice di più, è il contorno nel quale mi muovo meglio e mi sento più libera di esprimermi. Ma questo non vuol dire essere costantemente immune alla tristezza, e al peso di dovermela sempre cavare da sola, qualsiasi cosa accada. Nel 2018 scrivevo che le principesse non hanno bisogno di essere salvate, perché possono farlo benissimo da sole, ed è la cosa nella quale credo di più al mondo. È la lezione più dura, ma importante, che noi donne dobbiamo imparare, ad un certo punto della nostra esistenza. Non perché dobbiamo dimostrare qualcosa a qualcuno – agli uomini, alla società, al mondo -, ma perché è l’unica cosa che ci permetterà di non essere schiacciate dal peso degli eventi, e da quello che ci accadrà nella vita.

A giugno di quell’anno me n’ero andata dalla casa dove stavo, una mattina, per non tornare mai più: erano giorni di caos e confusione, nei quali la mia testa sembrava girare alla velocità della luce. Alternando poi momenti di calma piatta, e di una sensazione costantemente presente sul fondo della pancia. Era rabbia, ma ancora non lo riuscivo a capire. Però avevo trovato un altro posto dove stare, nel giro di poche ore, e nel mezzo della confusione più totale questa certezza era l’unico balsamo che sembrava in grado di lenire la mia anima che non riusciva a darsi pace. Erano belle giornate di sole, mi ricordo, e in quella nuova casa nella quale sarei rinata c’era un cortile proprio davanti alla mia porta. Così ci ho portato la CBF500, togliendola dal garage. L’ho messa in modo che si trovasse nella direttiva dei raggi de sole, l’ho issata sul cavalletto centrale e l’ho contemplata per qualche istante, prima di procedere alla pulizia della catena. Non so perché avessi deciso di farlo: forse era il mio modo per esorcizzare quello che stavo vivendo. Per pulire me, attraverso di lei.

A operazione finita non mi restava che toglierla dal cavalletto centrale e riportarla in garage: invece nel scendere dal cavalletto la moto ha seguito un piccolo avvallamento del cortile. Non so cosa sia successo, ma ho perso la presa dal manubrio e la moto è caduta sul lato destro. Un’apparente sciocchezza, ma che in realtà si è tradotta in un danno pazzesco. Il manubrio, a causa della botta, si era piegato irrimediabilmente, ed è stato in quel frangente che mi sono sentita impotente. Sola, perché non avevo nessuno – nell’arco di almeno 250 chilometri – che mi avrebbe potuta aiutare a sostituirlo. Così sono salita in sella, e ho guidato come riuscivo fino al concessionario Honda più vicino. Avrei voluto rimediare ai danni in autonomia, arrangiarmi da sola, ma in quel momento mi è sembrato di non averne la forza: non l’avevo mai fatto, e sentivo di avere il bisogno, quanto meno, della supervisione di qualcuno che ne capiva più di me. Forse è stata solo la via più facile, o il desiderio estemporaneo che, per una volta, ci pensasse qualcun altro a risolvere un mio problema. Non lo so davvero, ma ricordo benissimo di aver poi fatto la strada dal concessionario alla fermata del bus piangendo, una volta consegnata la moto, perché quella riparazione improvvisa di manubrio e freccia mi sarebbe costata più di un mese di affitto. Una beffa, per una persona che stava risparmiando il più possibile, facendo immensi sacrifici, in vista di un viaggio che sognava di fare nell’immediato futuro.

Ecco, in quella situazione sì, la solitudine – anche solo geografica – della mia vita mi è pesata. Tanto, tantissimo. Sono restata arrabbiata per ore, arrabbiata e triste, perché non mi sembrava giusto tutto quello che stavo vivendo.

Ero capace di cavarmela da sola, era anni che lo facevo, ma perché la vita continuava a mettermi alla prova?

In realtà non avevo capito che la lezione che dovevo imparare era molto più ampia, molto più complessa di quella che ci vedevo in quel momento. Mi sentivo sola nella difficoltà, è vero, ma dovevo smettere di piangermi addosso per quello che mi era successo e cercare di fare un passo avanti. Perché non potevo passare tutta la vita a pensare che non esistano persone in grado di amare in maniera genuina, trasparente. Di aiutare davvero, di esserci quando una mano può rivelarsi preziosa. Quando la tua non basta, e anche se sapresti fare da sola sono felici di renderti il lavoro meno gravoso. Senza farti pesare nulla però: né l’esserci, né l’aiuto che ti stanno dando.

E non so perché questo insegnamento sia più difficile da apprendere nella vita di tutti i giorni, piuttosto che in viaggio.

La più grande lezione di sempre

Da allora ci penso spesso, quando mi sembra di non trovare risposta ad alcune domande. Penso al fatto che, in realtà, non sono davvero da sola: che ho amiche e amici sui quali contare, ho una famiglia. Che dove non arrivo io possono arrivare loro, anche a distanza.

Quindi no, non vivo la solitudine come un dramma, perché ogni giorno cerco di lavorare su di me. Perché accetto di provarla, di contemplarla, ma non di lasciarmici schiacciare ancora. La sensazione che ha avuto la meglio quel giorno, mentre osservavo il manubrio della mia moto puntare verso il cielo invece che verso destra, è stata troppo dolorosa. Ma non era la solitudine in sé a farmi stare male: era il peso di quello che era stato, e che non avevo ancora processato.

Oggi, invece, quando provo solitudine è come se si trattasse di una nuvola passeggera: la osservo percorrere il suo moto nel cielo e poi la si guardo sparire, veloce come è arrivata.

Accettare ed essere consapevoli

Ero a Santorini, durante l’ultimo viaggio, e avevo trovato un campeggio-ostello nel quale stare ad un prezzo ragionevole. I gestori non avevano voluto che montassi la tenda: le camerate erano disponibili alla stessa tariffa della piazzola, e per me non c’era problema a dividere la stanza con qualcun altro. Chi fosse la persona in questione l’ho scoperto solo qualche ora dopo, verso l’ora di cena. Era una signora molto anziana, e probabilmente avrei dovuto capirlo dalle cose che avevo trovato nell’antibagno, e vicino al suo letto. Un pigiama appeso, un vecchio maglione: e poi sulla mensola sopra il lavandino una piccola confezione di polvere per lavare il bucato. Non so perché, ma avevo provato una strana sensazione, nel vederle. Una sorta di tristezza, sul fondo della pancia, che non sapevo spiegare. Non parlava inglese, la signora, ma in qualche modo abbiamo scambiato due parole. Mi ha persino passato la figlia al telefono, che parlava un po’ italiano. «È una brava donna, mia madre, non ti devi preoccupare – mi ha detto, con la voce sicura, serena -. Anzi, per qualunque cosa tu abbia bisogno non farti problemi e chiedi a lei».

Ci siamo addormentate, a pochi passi di distanza l’una dall’altra, e ho dimenticato quella tristezza inspiegabile che avevo provato poche ore prima. L’ho presa come un’altra delle mie solite sensazioni da persona iper-sensibile, e l’ho ignorata.

Al mattino dopo, molto presto, la signora è uscita. Era vestita di tutto punto, come chi sa di non tornare per molte ore. L’ho vista passare, e nel dormiveglia mi sono chiesta dove andasse alle 6:30 di mattina di un giorno di metà novembre, ma mi sono addormentata di nuovo.

Quel giorno, però, mi aspettava una lunga escursione di 10 chilometri da Fira a Oia, così non ho dormito ancora a lungo. Messa in marcia di buona lena mi sono presto trovata ad aggirarmi per i vicoli di Fira, seguendo il percorso che, lungo la caldera, mi avrebbe portata verso la località più nota dell’isola. Ad un certo punto, però, l’ho vista: ero sicura fosse lei, la signora che divideva la stanza con me. Era seduta sul bordo del marciapiede, e nelle mani stringeva un vecchio bicchiere di carta, che allungava verso i passanti. Ho cercato di non farmi vedere, e le ho presto dato le spalle, per non incrociare il suo sguardo. Non so perché, ma credo di averlo fatto per non metterla in imbarazzo, per lasciare che fra di noi ci fosse ancora il beneficio del dubbio. Mi aveva raccontato di fare le pulizie in alcuni hotel della zona, che vista la bassa stagione avevano chiuso, ma evidentemente non avevo capito.

Ho messo da parte il ricordo di quello che avevo visto per tutto il giorno, ma una volta tornata in camera, la sera, una sensazione fortissima si è fatta largo nel mio petto. E la solitudine con lei. Facendomi rendere conto di come sia soggetta a provare questo sentimento nel momento in cui mi ritrovo davanti a una realtà che non capisco. In quell’istante, infatti, avrei tanto voluto avere qualcuno al mio fianco per chiedergli «perché stava facendo la carità? La figlia lo sa, oppure la signora le sta mentendo? E se lo sa, perché le fa fare questa vita?».

Così ho scritto a degli amici, ho raccontato quello che provavo e mi sono sentita un pochino meglio. Ho accettato, insomma, che potessero esserci momenti in cui, anche in viaggio, anche mentre facciamo cose che ci piacciono tanto, non ci sentiamo sempre e comunque in pace. Momenti in cui ci rendiamo conto che qualcosa manca, che qualcosa potrebbe migliorare. Accade sopratutto quando ti trovi nei posti più belli che tu abbia mai visto (come per me è stato Santorini a novembre), di sentire la mancanza di qualcuno che guardi il tramonto insieme a te.

Ed è l’accettazione di questa consapevolezza, e della nostra fragilità di umani, l’unico segreto che per me ci permette di avere la meglio in queste situazioni.

Non so spiegare perché mi piaccia così tanto viaggiare da sola, e il perché non provi paura a farlo, se non dicendo che sono uno spirito libero con un tentativo doloroso alle spalle. Però ho imparato tanto, in questi anni di viaggi e di vita solitaria, e se oggi ho deciso di raccontare tutto questo è perché ne sentivo il bisogno. Perché trovare le parole per raccontare è l’unico modo che conosco per rielaborare quello che ho vissuto, e mettere ordine ai miei pensieri. Anche quando sono sconclusionati, anche quando fanno paura.

Viaggiare da soli, e contare solo su se stessi, insegna non solo a essere indipendenti…

Viaggiare da soli insegna a scegliere le persone sulle quali contare

E non importa quello che si è passato prima, non importano gli scivoloni e le ginocchia (e il cuore) sbucciati. Non importa nulla di nulla, se ad un certo momento della nostra vita riusciamo ad arrivare a questa conclusione, e a circondarci solo di persone che nella nostra vita portano gioia, serenità, comprensione. Di noi stessi, in primis, perché iniziamo a metterci a fuoco con i loro occhi, e quello che vediamo inizia a piacerci.

Forse passare attraverso la solitudine è l’unico modo che funziona davvero per fare una selezione, nella propria vita, e capire a chi vale la pena donare il proprio cuore, e il proprio tempo.

Vista in questo modo fa meno paura, vero? Proverò a rispondervi così, la prossima volta che mi chiederete se non mi piacerebbe viaggiare con qualcuno, o se lo stare sempre in compagnia di me stessa non mi pesi. Vi risponderò che no, non mi pesa, e che so che quando viaggerò con qualcuno sarà perché lo desidero davvero. Ricordando, ancora una volta, che il viaggio non è diverso dalla vita di ogni giorno, e ognuno di noi merita di camminare al fianco di persone in grado di farci spiccare il volo, e non di chi vuole solo tarparci le ali.

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