Quasi un anno fa, durante il primo meeting italiano di Horizons Unlimited, una sera ci siamo ritrovati a parlare. Seduti ai tavoli esterni del ristorante di Badia di Moscheta, una volta terminata anche l’ultima presentazione della giornata, i racconti si sono inanellati spontanei. Perché, alla fine, l’universo italiano dei motoviaggiatori non è particolarmente ampio, e in un modo o nell’altro si finisce per conoscersi tutti. Così, seduti intorno a quel grande tavolo di legno, abbiamo cominciato a condividere storie e aneddoti, emozioni e vicende vissute in viaggio. In un racconto che era sì delle persone che l’avevano vissuto, ma che era anche condiviso con tutti i partecipanti, in un gigantesco dialogo che, collegando storia dopo storia, in meno di due ore aveva già coperto ogni chilometro di mondo.
Senza un ordine specifico quasi tutti avevano iniziato a raccontare. Ridevo, quando le storie vissute on the road dai miei amici toccavano inattese punte di comicità, e non pensavo a niente se non a godermi quel momento davvero speciale. Mentre la notte calava sul bosco, e l’aria si rinfrescava, facevo tesoro dei racconti degli altri e ascoltavo con attenzione. Fino a quando qualcuno non mi ha guardata, dall’altro lato della tavolata, e mi ha detto:
«Dai Arianna, raccontaci qualcosa anche tu!»
Ci ho pensato qualche secondo, ma nulla. Non mi veniva in mente nessun aneddoto divertente, o almeno nulla che tenesse testa alle storie così piacevoli sentite fino a un attimo prima. E sì che l’anno precedente avevo fatto un viaggio davvero particolare, e anche prima non mi ero di certo risparmiata… però in quel momento, su due piedi, non sono stata in grado di lasciarmi andare. Il dolore per come erano andate le cose era davvero ancora troppo fresco, e non avevo la forza necessaria per scavare nei ricordi, armata di una potente lampada frontale, e disseppellire le cose belle da sotto i cumuli di macerie. Ho passato il testimone, quella sera, con la speranza che non succeda mai più. Che, in futuro, alla richiesta di raccontare una storia, o un aneddoto significativo dei miei viaggi, non indietreggi più per la timidezza. Ma anzi, sia pronta a condividere la bellezza incontrata nei luoghi più impensabili.
Quella domanda mi è restata nella testa per giorni…
Fino a quando, poco tempo dopo, su Facebook sono incappata in un post pubblicato da una ragazza armena conosciuta in viaggio. E i ricordi sono affiorati impetuosi, come se per tutto quel tempo fossero stati nascosti appena sotto la superficie, pronti per emergere quando fossi stata davvero pronta. Finalmente lo ero, e non provavo più dolore.
Una storia di confine
Mi ricordo benissimo quel giorno, perché nel momento in cui ci eravamo trovati a dover attraversare la frontiera fra Georgia e Armenia, ero stata colta da un malessere fulminante. Piegata su me stessa da fortissimi crampi allo stomaco, avevo iniziato a sudare freddo e avevo dovuto mettermi seduta per terra, per il timore di perdere i sensi. La moto, parcheggiata pochi passi più in là, aveva il muso coperto di polvere rivolto verso il confine, e il piccolo stabile della dogana armena. Faceva caldo, un caldo torrido, e questo non aiutava per niente. Avrei solo voluto avere un bagno a disposizione, e invece eravamo nel mezzo del nulla più completo e dovevamo espletare la pratica di attraversamento da un Paese all’altro. La grande incognita, insomma, già non appena usciti dall’Unione Europea: perché sai benissimo quando cominci, ma non sai mai quando finirai. E questa prospettiva non risulta particolarmente allettante quando, per un motivo ancora ignoto, fatichi a reggerti in piedi.
In qualche modo, però, sono riuscita a fare quello che dovevo, e nel momento in cui il funzionario della dogana apponeva sul mio passaporto l’ennesimo timbro, ho sentito un grosso rivolo di sudore scorrere giù dalla mia tempia destra. Lasciata alle spalle la Georgia, con le sue meravigliose strade di montagna, ora eravamo ufficialmente in Armenia. Una terra misteriosa e della quale non si sente mai parlare, che avevamo potuto raggiungere via terra solo dopo immensi giri. In silenziosa (ma non troppo) guerra con la Turchia da più di 100 anni, ogni confine turco-armeno è impraticabile e per passare da un Paese all’altro è necessario transitare per la vicina Georgia.

Cercando dentro di me una forza che, in quel momento, sentivo di non avere, mi sono messa alla guida. Con l’idea di fermarmi pochi metri dopo, non appena avessi visto un ristorante, un supermercato… un qualunque cosa che mi facesse sospettare la presenza di un bagno. Pochi minuti dopo passavo sotto a del filo spinato, puntando dritta verso una casupola di legno, un centinaio di metri più in là nel prato. Quello sarebbe stato il mio primo approccio con il genere di toilettes che avrebbero accompagnato le mie giornate in Asia Centrale. Un cubicolo di assi di legno, e un grande buco per terra.
Avete tempo?
Nel frattempo il mio compagno di viaggio si trovava a bordo strada, e ingannava il tempo nell’attesa che tornassi dal bagno e mi sentissi meglio. Alcuni bambineggi dei paraggi avevano iniziato a girare intorno alle moto, ma ormai eravamo abituati alla loro curiosità. Il fatto che degli stranieri arrivino nel loro Paese in sella a delle motociclette è sempre un fatto in grado di generare grande stupore ed entusiasmo, ed è facilissimo che le persone ti chiedano una fotografia accanto al mezzo, o addirittura in sella.
Uno di questi bambini, però, si era avvicinato più degli altri e, vinta la timidezza, aveva chiesto quanto tempo avessimo a disposizione. In quel momento tornavo anche io, e fu facile trovarsi d’accordo. Non avevamo fretta, e sì, ci faceva piacere l’idea di conoscere la sua sorella maggiore che desiderava così tanto praticare il suo inglese. Imboccato il vialetto di una casa poco distante, eravamo pronti a conoscere quella famiglia così desiderosa di accoglierci.
La famiglia armena
Chi è stato in questi luoghi sa: ci sono dei rituali, e degli elementi che si ripetono. Uno di questi è trovare delle ciabatte in plastica, coloratissime, pochi passi dopo aver varcato la soglia di una casa. In questo caso non è andata diversamente e, mentre uscivo dai miei stivali da moto, con la coda dell’occhio ho iniziato a guardarmi in giro. La casa, nella quale il ragazzino sorridente ci aveva condotti, era molto spoglia. L’ingresso, decisamente malmesso, si allungava verso un corridoio sul quale si affacciavano altre stanze. E fu proprio da una di queste che sbucò la testa scura di Asia, la sorella maggiore della quale il piccolo ci aveva parlato. Che, in un inglese disinvolto, ci ha subito invitati ad accomodarci nella stanza sulla sinistra, dove ad attenderci c’era la madre, e un altro fratellino.
Ed è stato in quel momento che l’ho visto: un beauty case giallo lasciato aperto, da un lato del tavolo, una boccetta di smalto rosa, una crema per le mani e qualche strumento per la manicure. Le stesse, identiche cose che contiene il mio. Le stesse identiche cose che uso quando voglio prendermi cura di me, per un attimo, e sentirmi un po’ più curata della persona che di solito ha troppo da fare con le mani per mettere lo smalto sulle unghie e fare in modo che duri. Sarà stato anche il colore rosa della vernice, veramente simile al mio preferito (che in quel momento si trovava ad almeno 7mila chilometri di distanza)… ma per qualche secondo devo essere rimasta ferma, a osservare la scena e riflettere. In quella casa così spoglia e rovinata, nel mezzo del nulla, a colpirmi era stato il gesto di bellezza e di amore verso se stessi che la ragazza si stava riservando pochi minuti prima. Una cosa estremamente normale, ma che in quel momento mi è sembrata straordinaria.
Il pomeriggio è poi continuato in maniera piacevolissima: la madre ha dato vita ad un vero e proprio banchetto, e nel giro di pochi minuti stavamo assaggiando tutto quello che era stato messo sul tavolo. Con la timidezza di chi non sa come muoversi, ma desidera conoscere, capire e osservare questo mondo decisamente straordinario.
Il potere dei sogni
Ricordo la dolcezza negli occhi della donna, mentre osservava la figlia non ancora maggiorenne conversare con noi e raccontarci delle sue esperienze e dei suoi sogni. Quell’inglese così fluido l’aveva praticato con i rari turisti di passaggio, che a volte aveva ospitato anche per la notte, perché il suo sogno era di diventare una chef e trasferirsi a Yerevan (la capitale), dove il padre lavora come tassista. Mentre ci preparava una tisana, fatta mettendo in infusione erbe e fiori di campo raccolti da lei, ho avuto come una sensazione di déjà-vu: quella determinazione, quelle fantasie concrete, mi erano familiari. Non era l’effetto dello smalto rosa, ma il fatto che quella piccola donna coraggiosa fosse in tutto e per tutto simile a me.
Contavano poco i secchi in corridoio – forse per raccogliere l’acqua che si infiltrava dal tetto -, le assi traballanti e gli spazi spogli. Quello che c’era, nella piccola stanza in cui tutta la famiglia era riunita, bastava e avanzava per darle la forza di credere in ogni suo sogno.
Volete sapere la cosa più bella? Ci è riuscita, pochi mesi dopo. Quel sorriso, che vedo nelle foto sui social, è la prova che solo l’impegno è in grado di portare lontano, e che non ci sono ambizioni troppo grandi per chi si arma di coraggio e si butta nella vita.